La scoperta sorprendente del batterio mangia-plastica

IN UN MONDO IN CUI SI PRODUCONO CIRCA 50 MILIONI DI TONNELLATE DI PLASTICA ALL’ ANNO, ECCO LA SCOPERTA CHE POTREBBE AIUTARE NELLA LOTTA CONTRO L’INQUINAMENTO.

Nel Marzo 2016, analizzando oltre 250 campioni prelevati da un sito di riciclaggio di bottiglie in PET, un’équipe di scienziati del Kyoto Institute of Technology, guidata da Shosuke Yoshida, ha isolato una nuova specie di batterio, chiamato Ideonella sakaiensis, in grado di “divorare” la plastica utilizzandola come fonte di sostentamento e di crescita.

Questo speciale batterio, unico nel suo genere, sarebbe in grado di aiutare l’umanità nella sua lotta contro l’inquinamento derivante dall’utilizzo sempre più diffuso delle materie plastiche.

Il polietilene tereftalato, o polietilentereftalato, (PET) è una particolare resina termoplastica adatta al contatto alimentare che appartiene alla famiglia dei poliesteri, una classe di polimeri di condensazione che contengono il gruppo funzionale degli esteri lungo la catena carboniosa. Il poliestere PET è il più noto, composto dall’alcol etilenglicole (EG) e dall’acido tereftalico (TPA).

Si tratta difatti di una delle plastiche più diffuse al mondo. Se ne producono circa 50 milioni di tonnellate l’anno e viene impiegata in diversi settori. L’utilizzo principale riguarda la produzione di contenitori per bevande (66%) e per cibi (8%) ma anche per costruire etichette, involucri per batterie, tubi e pellicole.

Le materie plastiche sono quindi ampiamente incorporate nei prodotti di consumo ma molti di questi prodotti sono notevolmente resistenti nell’ambiente: dal punto di vista chimico, si tratta di una plastica estremamente resistente al processo di biodegradazione a causa dell’assenza o della bassa attività enzimatica catabolica. In particolare i poliesteri contenenti un’elevata quantità di componenti aromatiche, proprio come il PET, sono chimicamente inerti.

La degradazione enzimatica del PET è limitata a poche specie fungine, quindi la biodegradazione ad oggi non è ancora una soluzione praticabile.

Negli ultimi 40 anni, l’uso della plastica e dei suoi derivati è diventato sempre più quotidiano ed esteso nel mondo, arrivando a rappresentare anche la frazione merceologica preponderante dei rifiuti rinvenuti in mare: si parla di percentuali dal 60 all’ 80% del totale, con punte che toccano il 90-95% in alcune regioni.1

Questi rifiuti rappresentano una presenza altamente dannosa per diverse specie animali: la microplastica (particelle micrometriche di plastica) viene difatti facilmente ingerita dal plancton diffondendosi poi al resto dell’ecosistema. Inoltre, l’odore della plastica, inganna gli stessi animali marini i quali ingeriscono questo materiale credendolo cibo per loro commestibile.

Ad aggravare questo panorama sconfortante c’è anche il fatto di come la maggior parte delle materie plastiche non si decomponga mai completamente, come invece accade per il materiale organico, che ritorna ai suoi composti di base, una volta decomposto.

L’Italia purtroppo è un paese doppiamente esposto a questo problema: è infatti il primo paese europeo per consumo di sacchetti di plastica usa e getta e si affaccia su 3 versanti sul mar Mediterraneo, colpito come gli altri mari del Pianeta dall’inquinamento da plastica.

Molto stupore ha portato quindi la scoperta dell’Ideonella sakaiensis 201-F6, comunemente rinominato “batterio mangia-plastica”, appartenente alla famiglia delle Comamonadaceae di betaprotobatteri.

Come tutti i protobatteri presenta queste caratteristiche:
  • gram-negativo;
  • aerobico;
  • non sporigeno;
  • a forma di bastoncello;
  • la maggior parte delle sue specie è mobile per via della presenza di un flagello polare;
  • ossidasi e catalasi positivo;
  • in grado di crescere in un range di pH compreso tra 5.5 e 9.0 (ottimale a 7-7.5);
  • in grado di crescere in un range di temperatura compreso tra i 15° e 42°C (ottimale a 30-37°C).

Ciò che stupisce è il fatto che questo batterio, non diverso dai propri simili, sia in grado di degradare quasi completamente un film sottile di PET utilizzandola come fonte primaria di carbonio per la propria crescita.

Purtroppo il processo rimane abbastanza lento: la degradazione completa di una piccola particella di PET impiega circa sei settimane alla temperatura di 30°.

Nonostante ciò però la scoperta potrebbe avere implicazioni molto importanti per il riciclo delle plastiche, così come per lo studio dei principi dell’evoluzione degli enzimi.

Un’evoluzione così rapida della capacità di degradazione di questi organismi è possibile in quanto i microbi hanno la capacità straordinaria di adattarsi a ciò che li circonda, confermando quindi il grave problema ambientale dell’inquinamento. Il batterio ha necessitato di più tempo per “mangiare” PET altamente cristallizzato usato nelle bottiglie. Ciò significa che gli enzimi e i processi devono essere rifiniti prima che possa essere utile per future applicazioni che rimangono ancora da stabilire.

La ricerca, naturalmente, andrà avanti: gli autori dello studio hanno infatti intenzione di capire se è possibile utilizzare il batterio per isolare l’acido tereftalico e riutilizzarlo per la produzione di nuova plastica, senza quindi utilizzare petrolio.

Altresì, sono orientati a comprendere a fondo i meccanismi di decomposizione della plastica, con lo scopo di intraprendere azioni corali di bonifica degli ecosistemi, soprattutto marini.

L’uso più ovvio quindi sarebbe come agente biologico in natura: i batteri potrebbero essere spruzzati sui cumuli di spazzatura galleggiante negli oceani.

Non tutti, però, sono d’accordo sull’efficacia di questa operazione, in quanto scomporre la plastica potrebbe liberare nell’ambiente additivi che possono rivelarsi altamente tossici.


Dati raccolti dall’UNEP (United Nations Environment Programme)

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